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LO STATO DELLE COSE
(DER STAND DER DINGE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 gennaio 1983
 
di Wim Wenders, con Patrick Bauchau, Isabelle Weingarten, Sam Fuller, Robert Kramer, Roger Corman (Germania - Portogallo, 1982)
 
Da un lato una "storia", una realtà ben vissuta. Dall'altro l'assenza di una storia; e la fantasia, la creazione artistica. La realtà: tre anni fa Wim Wenders, enfant prodige del cinema europeo è chiamato a Los Angeles da Francis Coppola, incarnazione apocalittica del grande cinema (americano, naturalmente, spettacolare, naturalmente). Ma la produzione, e la realizzazione di HAMMETT incontreranno difficoltà quasi insormontabili. LO STATO DELLE COSE, molto di più di HAMMETT (che nel frattempo è stato, bene o male, portato a termine) è la storia di quegli anni e di quell'esperienza di Wenders. Non a caso il protagonista del film si chiama FrIedrich, detto Fritz: come Murnau, come Lang, pure Wenders ha conosciuto lo smarrimento e l'esaltazione di ogni artista di ogni individuo che venendo dall'Europa affronti la terra di molti miti, e non solo cinematografici. In una pausa dell'interminabile e travagliata lavorazione di HAMMETT Wenders è capitato in Portogallo: sulle rive dell'Oceano, in un albergo non (o mai?) terminato, c'è una squadra cinematografica del regista Raul Ruiz, bloccata dalla mancanza di fondi. Wenders con quattro soldi degli americani, ha ricomperato la troupe: e ha girato la storia di quel gruppo di cineasti isolati e, soprattutto, di sé stesso.

La storia. LO STATO DELLE COSE parla dell'impossibilità di girare un film per mancanza di soldi. Ma parla, in effetti, dell'impossibilità di raccontare una storia. La voglia, e l'impossibilità (sono le parole del regista tedesco stesso) di rappresentare, di riprodurre la realtà. E il seguito di sofferenze che da ciò derivano. Le riprese di un film si fermano: e da quel momento inizia la vita, quella vera. E cioè la non-storia: dodici persone, il regista, gli attori, i tecnici rimangono bloccati su quella specie di zattera della Medusa. Liberati dalla finzione del film che si stava girando, lasciati a loro stessi nelle camere d'albergo, i protagonisti di Lo stato delle cose non riescono a vivere. Più la storia s'insinua nel film (che deve pur procedere), più la vita sembra fuggirne. Impotente, ognuno dei personággi cerca disperatamente di afferrare la realtà: i bambini girano con una cinepresa, una giovane donna dipinge, un'altra cerca di suonare il violino, il regista stesso scatta delle polaroid. Tutti tentativi impossibili di registrare la vita, il reale.

"Un film senza una storia è come una casa senza mura" dice, al termine del film, il produttore al regista. Ma le storie hanno troppe regole, troppi meccanismi. "Dieci film, e sempre la stessa storia", risponde il protagonista dello STATO DELLE COSE, alias Wim Wenders. Il film, lo comprenderemo, non è la descrizione delle riprese di un altro film. Certo, è la confessione dell'angoscia di un creatore. Ma soprattutto è la conclusione che mille cose inutili, l'inerzia di un gruppo di artisti (e quindi di creatori attivi, dinamici), rappresentano malgrado tutto l'unica cosa degna di essere filmata, la vita, il quotidiano. Eppure... eppure un film, come ogni opera d'arte, rappresenta un imponderabile. Non una dissertazione, un saggio: ma una visione aperta sul mondo che sfugge alle leggi del tangibile. Fino a due terzi del suo cammino, LOS STATO DELLE COSE rappresenta questa situazione di stallo. Ed a quel punto il protagonista, il regista, decide di partire per Los Angeles: abbandona la troupe per un week-end, cercherà il produttore per avere altri soldi, superare l'impasse. In due immagini sublimi, il film di Wenders passa allora dal sogno alla realtà, e dall'assenza di finzione alla "storia": un jet appare nel cielo lontano sfiorando nella notte la mezzaluna. Friedrich giunge a L. A.: un parcheggio deserto, una limousine con la capote che si alza mentre la macchina s'avvia, l'autostrada, un jumbo che sorvola vicinissimo, i sobborghi squallidi, le palme intossicate, i grattacieli lontani. In pochi fotogrammi, come non definirli sublimi, questo maestro dell'ambientazione (ma il cinema non è poi nient'altro che pura ambientazione, intuizione nell'introdurre un individuo, e una storia, in un ambiente che lo significhi?) Wenders rovescia i significati, le verità precostituite. E inizia un altro film.

Da quando il regista giunge sul suolo americano ecco che la "storia" si impone. Non solo: ma che tutto quanto precede, e che sembrava fino a quel momento slegato, immobile, momento di vita seducente ma incollocabile, tutto si organizza prende forma, tremendamente compiuta, grazie al miracolo o forse al mistero del discorso artistico. Come in un giallo ecco il mito di un'America cinematografica che da sempre nutre questo tedesco: L'incontro con una meccanica (con una vita, una realtà?) che ogni spettatore di cinema conosce. E un'altra sequenza, magnifica per sintesi espressiva: la macchina del protagonista, ripresa dall'alto di un grattacielo, che sfugge all'inseguimento. Un gioco squisito, ma così significativo, nella topografia di segni astratti che la rende emblematica. Da quel momento (l'incontro col produttore in una roulotte che incessantemente sfila senza meta per le strade americane, le spiegazioni, le pallottole che, al tempo stesso, infilano i due) tutto corre velocemente a quella fine che è già d'antologia: colpito a morte il regista brandisce la cinepresa superotto come un'arma. E mentre egli giace ormai senza vita questa continua a riprendere gli assalitori che si allontanano; ma li vediamo attraverso il mirino, in un'immagine traslata. Non più testimonianza, ma ricordo.

Come nell'AMICO AMERICANO, come in NICK'S MOVIE o anche in HAMMETT non è soltanto della crisi creativa dell'artista che Wim Wenders ci parla. Ma del fatto che ogni storia, ogni tentativo di descrivere la realtà è un passo che ci avvicina sempre di più alla morte. LO STATO DELLE COSE è un film, lo avrete compreso, che si organizza poco a poco nella vostra mente. Qualcuno lo ha definito un film melanconico. Non è certamente un film facile, come tanti. È un film che vi ricompensa per lo sforzo, minimo, che quella riorganizzazione opera nella nostra mente. E l'entità della ricompensa è impossibile da stabilire: il conto è tra voi e lo schermo.


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